4 - porte aperte

Anche quella volta, quindi, salì le scale di corsa.
Come al solito lo fece dall'angolo sud della scalinata, quello verso via Garibaldi; in questo modo poteva gettare un'occhiata veloce alla meridiana astrologica (era ancora lì? chi l'aveva inserita? perchè?), arrivare alla porta in cornu epistolae e sfiorare con la mano Crono, o Ermete, o chiunque fosse. Appoggiare la mano su quel marmo freddo gli dava paradossalmente un forte calore; gli sembrava in qualche modo di poter comandare l'intera astronave del Duomo con quel gesto, come se tutta la costruzione fosse in grado di librarsi potente nello spazio e quel Crono scolpito nel marmo fosse una specie di joystick per manovrarla.
Così stava per qualche secondo, a testa bassa; da qualche anno non poteva, non voleva, evitare quel gesto, entrando. Non sapeva bene perchè lo facesse, sentiva di venire richiamato dai marmi a farlo.
Gli piaceva chiamare quella porta nel modo antico, appunto la porta in cornu epistolae, come aveva letto nei libri sul Duomo; in tutte le chiese un tempo le lettere degli apostoli venivano lette, guardando l'altare, a destra, mentre il Vangelo a sinistra; così una navata era chiamata in cornu epistolae, l'altra in cornu evangelii.
Per lui ogni ingresso al Duomo era diventato rito, uno studio nuovo; per questo ripercorreva i giusti passi, entrando da destra e uscendo da sinistra, e, con lo sguardo, partendo dal basso, salendo, e ritornando in basso per uscire.

Nel rito di entrata con la mano su Crono, quegli occhi chini lo riposavano segretamente, lo avviavano ad una esperienza nuova di navigazione con quell'astronave di marmo; non poteva fare a meno di pensare alle chiese romaniche e ai leoni che venivano messi all'ingresso; i guardiani di soglia che dovevano far capire a chi entrava quanto dovesse stare attento ad attraversare la porta che marcava una diversità tra un esterno umano ed un interno tanto divino quanto interiore, bestie feroci in grado di sbranare l'anima di chi non chinasse il capo di fronte al Tempio, di chi non rispettasse la sacralità del luogo.
Leoni sempre in coppia, a simboleggiare la polarità e la tensione tra i poli; ricordava quelli scolpiti nel granito della Sacra di San Michele, raffigurati con le code intrecciate proprio a significare il legame che unisce gli opposti.
Quella volta sentì più forte questa sensazione, e più forte immaginò il ruggito del leone. Il temporale che cominciava ad annunciarsi con luci cupe e rombi lontani lo convinse che ciò che stava sentendo fossero tuoni e non ruggiti; ma presto rise della sua assurda continua ricerca di ragioni, da tempo ormai sapeva che non era più quella dea a comandare nella sua mente.
Non era più la logica, la ragione, il logos a comandare in lui; c'era voluto tempo e sofferenza, ma aveva ormai detronizzato quel modo di pensare ed aveva lasciato spazio all'emozione irragionevole, a lasciarsi andare a ciò che non aveva logiche ma risuonava caldo nel cuore. Questo l'aveva portato lontano, forse troppo lontano dalmondo in cui da millenni il logos, la ragione, l'intelletto, il maschio patriarca sono a fondamento della società.
Lasciandosi andare era tornato più vicino all'uomo primordiale, più vicino al cuore sanguinante e meno alla mente raziocinante; vedeva con pena gli ultimi due secoli dominati dalla pretesa totalizzante della scienza.
Il percorso era stato lungo e doloroso, la sua vita spezzata in parti; ognuna ferita, ognuna lacerata.
Acutissimo un dolore gli fiaccò i pensieri.
Il Chiostro del Paradiso... la Sapienza! la Sapienza doveva essere lì, dove ora c'è una piazzetta, a fianco del Duomo:, il Chiostro appena dietro. O viceversa, chissà.
Il Chiostro del Paradiso era il luogo dove cinque secoli prima il Vescovo teneva tutti i beni, alimentari e non; anche la Sapienza era un luogo fisico, prima che costruissero il Duomo Nuovo; un luogo che aveva finestre grandi con vetri veri.
Ancora con la testa china pensava... Santo cielo, tutti quei libri. Quello spazio sacro. Quei pensieri così profondi... e così torbidi, e così vietati.
A volte lampi di pensiero come sogni gli attraversavano la mente; impossibile tacitarli, impossibile ricordarli esattamente dopo; rimaneva tra le mani l'impalpabile essenza del sogno del quale si ricorda qualche particolare molto bene ed il resto un po' piu labilmente, poi anche i particolari svaniscono e si rimane orfani del sogno, si raccoglie solo la struggente nostalgia di qualcosa che non si ricorda ma che è ancora così forte, così dolce.
In questi lampi, che ora si confondevano con quelli del temporale, rivedeva la Sapienza, i grandi tavoli per scrivere.
Risentiva rinascere quella sera, l'ambiente rischiarato da torce, la notte e la sua presenza.
Lei.
Raccogliendo i pensieri, socchiudendo appena gli occhi, respirando piano l'aria poteva sentirne il profumo, vedere splendere lo sguardo incrociando il suo con il sorriso impaurito e felice di chi ha deciso; sentiva il preciso istante in cui lei aveva cominciato ad alzare il braccio sinistro e non sapeva distinguerlo da quando lo aveva alzato lui e come in sogno vedeva le due mani sinistre avvicinarsi l'una all'altra per stringersi ed iniziare il rito.
L'immagine sparì subito dalla mente.
Come al solito, queste visioni avevano una intensità da togliergi il fiato ed una durata limitata, lo lasciavano felice per quanto aveva ricevuto, spossato e con il cuore impazzito per quanto erano state intense e quasi adirato perchè gli erano state tolte così in fretta.
Chi sei, chi sei, si chiedeva; chi sei tu che decidi di me, che mi mandi queste visioni, che controlli le mie profondità.
Perchè a me? Perchè farmi soffrire così perchè mi manca qualcosa che non conosco, perchè farmi felice per qualcosa che non ho? Se è l'aldilà la soluzione, bene, se è la morte la risposta allora, morte, vieni, mi ci butto vestito.
E chi è lei, chi è quella donna? Perchè quello sguardo mi trafigge? Perchè la paura e la felicità che vedo nei suoi occhi le sento così mie? Perchè mi dà la mano sinistra, perchè gliela do?

Qualche gocciolone d'acqua cadeva, spesso e forte, trafiggendo l'estate calda; l'odore di pioggia saliva dai marmi che iniziavano a bagnarsi e il prete lasciò il comando dell'astronave di pietra ed entrò nella porta in cornu epistolae.
Portava l'abito talare; non era necessario farlo ma in qualche modo gli piaceva. Soddisfava in parte il suo ben nascosto bisogno di eccentricità e funzionava da scudo; teneva lontane le persone, che preferivano non rivolgergli la parola.
Quell'abito incuteva quache timore; era una buona corazza.
Così, nel Duomo, poteva tranquillamente muoversi senza essere notato.
Si sedette in uno dei primi banchi al fondo; forse il terzo, o il quarto. Lasciò vagare lo sguardo nell'ampio ordine di colonne rinascimentali; guardò fissa quella dietro la quale c'era la lapide di una bimba morta che aveva più di mille anni.
Mille anni. Ed era lì.
Dal 523, per esattezza; quindi, millecinquecento anni.
Pensò a quando c'era il tetto in legno, a quanto avessero fatto bene a rimuoverlo, all'inizio del '900. Lo sguardo fece il giro del duomo fino a girarsi sulla controfacciata dove qualcosa lo stava aspettando.
Di nuovo: marmi, questa volta rivolti all'interno; quel san Michele con quella corazza disegnata fine, così altero, gioioso, elegante... l'incavo per l'asta, dal piede alla mano.
Quel padreterno, con i capelli così belli! I due vescovi Romagnano.... uno somigliava molto ad un suo amico!
Tutti elementi inseriti in controfacciata e risalenti a prima della costruzione del Duomo.
Poi a destra, in cornu evangelii, quello che era il suo pezzo preferito; la lastra tombale del vescovo Ursicino, anno 600 circa.
Millequattrocento anni in quella lastra di marmo.
Un simbolo semplice: un cerchio con dentro il crisma (P e X, iniziali di Cristo in greco e di un mucchio di altre cose) e l'alfa e l'omega, io sono l'inizio e la fine del mondo.
Cos'altro c'è da dire, che altro si può dire, oltre questo?
La domanda gli risuonava in testa; cos'altro può essere detto di più grande, di più importante? Nulla, si rispose, nulla.

Girandosi verso la controfacciata, s'era messo seduto in direzione contraria rispetto ai banchi; poco alla volta le gambe avevano fatto il giro ed ora tutto il corpo era rivolto all'indietro rispetto alla chiesa, spalle all'altare.
Non se n'era accorto; lo sguardo perso verso i marmi, la schiena diritta, le mani appena appoggiate sulle gambe. A tratti infantile, a tratti ieratico; chi lo guardava lo percepiva totalmente perso nell'oggetto dello sguardo, che si alzò.
Si alzò aguardare l'ultima cena; grande quadro appeso in controfacciata, opera del vercellese Luigi Cagna, copia dell'ultima cena di Leonardo; una delle più belle copie ad oggi conservate.
Gli occhi subito a cercare Giovanni: l'aquila, lo spirito, il pensiero, l'aria, l'evangelista che gli era più vicino, il suo preferito.
In tutti i quadri dei due secoli anteriori Giovanni era dipinto in grembo a Gesù, addormentato; quasi sempre imberbe e con tratti femminei.
Anche in questo caso i tratti erano sicuramente didonna.
Non pensò alle congetture che vogliono che fosse la Maddalena, piuttosto che Maria, o un casto verginello, o alle costruzioni di un romanziere che pure stimava per averne parlato al grande pubblico; ormai aveva passato troppo tempo a frequentare questi pensieri da farli diventare sterili.
Pensò che comunque non può esistere un dipinto totale se non esiste un elemento femminile; che il logos da solo non può definire il mondo se non ha l'eros, l'emozione, il sentimento; che uno deve cercare l'altro, per essere completi.

"Avrei bisogno di parlarle!"
Non si era accorto che una donna si era seduta vicino a lui.
Quarant'anni circa, eleganza soffusa ricercata nei dettagli. Tailleur, tacchi bassi. Guanti - d'estate! - fini, traforati, leggeri, color carne.
Capelli raccolti, orecchini minimi, collana finissima con un piccolo oggetto, forse una croce ansata, non si distingueva.
La situazione era strana. Lui seduto in una direzione, lei nell'altra, a distanza di poche decine di centimetri; lui aveva indugiato forse troppo ad osservarla; un prete...
Pioggia, fuori, rumore di tuoni. Il bagliore di qualche lampo dalle alte finestre.
La guardò con uno sguardo interrogativo, non disse nulla.
"Vorrei confessarmi."
Il gioco si faceva pesante. Come comportarsi? Non era un prete, non poteva confessarla. Avrebbe voluto parlare con quella donna ma tirando fuori la voce più bassa e lontana a disposizione le disse che c'erano altri sacerdoti disponibili nei confessionali, che lui in quel momento non avrebbe potuto confessarla.
"In realtà sono entrata per ripararmi dal temporale, non pensavo a confessarmi."
"Poi ho visto il suo sguardo perso nell'aria, qualcosa che ho già visto in qualche mio paziente, qualcosa che adoro."
Quella donna aveva posto l'attenzione su di lui, l'aveva guardato, aveva fatto pensieri su di lui. La pensò mentre lo guardava, interrogandosi su che espressione potesse avere sia lui che lei, mentre lo stava guardando. Immaginò i suoi tacchi ticchettare sui marmi discretamente mentre lo stava guardando, i suoi piccoli orecchini dondolare ai suoi passi, la sua gonna ondeggiare ad ogni incedere, strisciare sui fianchi, i suoi occhi posarsi su di lui, la mente decidere di sedergli accanto.
Aveva aperto troppe porte, quella donna, e lui era ormai stanco di troppe battaglie per volerle chiudere tutte. Così ne lasciò una aperta, dicendole se vuole cominci a parlare, poi se sarà il caso trasformeremo tutto in confessione, altrimenti sarà solo una chiacchiera tra due persone.
Lei sorrise.
Lui percepì ancora la stranezza della posizione in cui erano; non c'era quasi nessuno e, del resto, chissene importa.
La pioggia cullava i loro occhi.
Così lei parlò al prete; aveva accennato ai pazienti perchè era psicologa e si occupava di stati alterati di coscienza, di quei momenti cioè in cui il timoniere principale della nostra psiche perde il controllo e lascia che siano i sottoufficiali a comandare la barca.
Il prete era interessato a quanto stava dicendo; le sue spiegazioni corrispondevano a qualcosa di conosciuto sia sotto l'aspetto psicologico che sotto quello della mitologia; ciò che lo stupiva era la profondità della conoscenza di quella donna non tanto dal punto di vista teorico, quanto dagli esempi da casi umani che gli riportava; sembrava avesse avuto esperienze molto forti con i suoi pazienti. Sembrava fosse riuscita a catturare l'essenza del loro problema, a portarlo alla luce ed evidenziarlo; e ne parlava in modo gioioso. Aveva conosciuto parecchi psicologi, ma in nessuno aveva riscontrato questo atteggiamento di felice scoperta degli aspetti più nascosti dei loro pazienti.
Si stava perdendo, stava subendo in qualche modo quella donna. Era già successo in passato, e voleva evitare che si ripetesse; quindi le chiese espressamente di ricondurre tutto al motivo per cui voleva confessarsi.
"Io guarisco le persone."
Beh, questo non è certo un peccato da confessare, pensò; e lo pensò così forte che arrivò direttamente a lei dall'espressione del viso; lei capì e rise un poco.
"Io faccio del male alle persone. Per questo voglio confessarmi."
Il prete capì che la situazione poteva diventare insostenibile; forse capiva, forse no, in ogni caso una persona che coscientemente fa del male vive nel peccato e ha bisogno di qualcuno che gli risolva un problema morale e lui in questo non ci voleva entrare; se quella donna voleva confessarsi doveva rivolgersi a chi la trattasse come penitente e la potesse assolvere dal male fatto.
"Io non posso assolverti dai tuoi peccati."
"Perchè?"
"Perchè non sono un prete."
"Anch'io non sono una psicologa."

San Giovanni, dall'alto, sembrava ridesse.


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